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Thursday, March 14, 2013

Il Duro Lavoro

Di solito si dice che le generazioni precedenti le nostre hanno lavorato duro, hanno sudato, hanno fatto sacrifici, e che la propria generazione, e quelle successive, non vogliono lavorare così duramente e non sono disposte a fare quei sacrifici. Visto che la qualità della vita è migliorata negli ultimi secoli, è probabile che sensazioni del genere siano state comuni a molte generazioni precedenti, quindi direi di non stare qui a sentenziare sulla veridicità di queste affermazioni.

C'è un aspetto del duro lavoro che mi pare non sia sottolineato abbastanza. Le persone che stimiamo, per una ragione o per un'altra, di solito hanno fatto o stanno facendo un duro lavoro [1]. Scrittori, artisti, attivisti, volontari, genitori, figli. Persone che stimiamo perché fanno più di quello che gli viene richiesto, o lo fanno meglio, o lo fanno per un motivo nobile, o semplicemente perché non possono fare a meno di farlo. Queste persone hanno dato o stanno dando un contributo.

C'è differenza tra dare un contributo e, che ne so, allungare qualche spicciolo a un mendicante. Questo è il motivo per cui ci si sente sempre un po' in colpa quando si dà (o non si dà) lo spicciolo, mentre ci si sente fieri, o almeno in pace con sé stessi, quando si contribuisce a qualcosa. Ma il contributo richiedere il duro lavoro, richiede energia, tempo, perseveranza, e un sacco di altri sostantivi. Non si può scampare al duro lavoro, sarebbe come voler spingere l'auto un panne senza fare fatica: è fisica. Per definizione un contributo porta a un cambiamento, e un cambiamento richiede energia, di qualche tipo, si parla per metafore, ma non troppo.

Il contributo si può cercare di darlo nel mondo del lavoro, oppure nella parte di vita al di fuori del mondo del lavoro. In entrambi i casi serve un obiettivo e la dedizione di dedicargli le proprie energie, anche quando la stanchezza sembra prendere il sopravvento, anche quando sembra che non serva. Le pause sono ammesse, e anche i dubbi, i cambi di rotta. L'importante è non diventare passivi estimatori di altri e credere di avere qualcosa a cui contribuire. Ci sarà pure qualcosa, no?

[1] Escludo le persone che "stimano" la vacuità, convertendo l'invidia del successo in idolatria demente. Per fare un esempio concreto potrei fare gli esempi Paris Hilton e Fabrizio Corona.

Monday, March 11, 2013

Diffidare dell'estetica

(There might be some extra commas to make google translate do a better job. Hopefully the post can then be understood also in English)

Di nuovo questa stupida evoluzione. Vediamo dei colori sgargianti, delle luci sfavillanti, e subito siamo irrorati da melanotropina. Non è poi tanto il problema chimico in sè, è che poi quando l'effetto sparisce, non le vediamo nemmeno più quelle luci e colori. Facciamo l'esempio della tecnologia. Compriamo l'ultimo strepitoso tablet, con la grafica più fluida e spettacolare finora raggiunta, e dopo una settimana lo usiamo solo per leggere email e postare minchiate su facebook. Lo diamo per scontato. Giochiamo con i videogiochi più avanzati e dopo pochi giorni non ci accorgiamo più degli effetti fino a pochi mesi fa impensabili.

Ma allora cosa resta? Vorrà mica dire che tutto è effimero?

L'ipotesi che mi pare migliore, è che se ci limitiamo al primo livello di esperienza sensoriale, allora la risposta è sì, tutto è effimero, nulla resiste, e il bisogno di stimoli alimenta il desiderio. Ma se passiamo a un livello superiore allora non è così. Comprai un quadro anni fa, di un artista di San Antonio, TX. Mostra due ballerini di flamenco, lui in grigio, lei in blu, il tutto su una spirale che si espande dal centro. Comprai quel quadro perché, mentre lo sfondo e i corpi stessi dei ballerini sono costituiti da una sola linea, il vestito della ballerina è più articolato, e da quel vestito, scaturito dal movimento, un piccolo vortice si stacca e intacca l'uniformità dello sfondo. Quel dettaglio, in basso, leggermente a destra, che passa quasi sempre inosservato a chi guarda l'immagine, è il motivo per cui ancora oggi sono soddisfatto del mio acquisto. Quel dettaglio, per me, è un simbolo, e come tale ha e avrà significato fino a lo riconosco come tale, quando indi ben oltre la bellezza.

Tutto questo è quasi sicuramente ovvio a chi legge qui. Ma c'è un fatto preoccupante. L'economia dei beni di consumo si basa esclusivamente sul primo livello di esperienza sensoriale, e sul fatto che una grossa fetta della popolazione non va molto al di là di questo. Non sto facendo un discorso elitario. Io stesso, più o meno volontariamente a seconda dei casi, compro cose sottomettendomi passivamente ai miei ormoni. Vorrei solo far notare che siamo succubi dei nostri istinti molto più di quanto di solito vogliamo ammettere, ma che, qualche volta, possiamo davvero essere umani in modo più nobile, possiamo essere istanze della consapevolezza di essere qualcosa di più, come fa la ballerina nel mio quadro che, ballando, perturba l'indifferenza del mondo.

Tuesday, February 12, 2013

Imbarazzi (quello che si chiama "a bit")

Mi chiedo: non è imbarazzante comprare i biglietti della lotteria, i gratta e vinci, giocare al lotto? Quando prendo il piccolo tagliandino e do i soldi al cassiere è come se gli dicessi: "guarda, non ho nessuna possibilità di farcela nel mondo reale, non riuscirei a competere e vincere e ottenere ricchezza e prestigio, quindi, ehm, questo è tutto quello che mi viene in mente per riuscire a migliorare la mia situazione, mi spiace, mi può comprendere?"

Faccio fatica a comprare i gratta e vinci se c'è qualcuno in coda dietro a me e balbetto cose, "ehm, ecco, vorrei... vorrei un b... sa, uno di quei... dei profilattici! ha dei profilattici?" che è sempre imbarazzante ma almeno dimostro di avere in corso delle attività vicine alla riproduzione, uno degli scopi principali della vita. Certo, non vado fino in fondo nemmeno lì, ma la probabilità di riprodurmi così è sicuramente maggiore di quella di vincere un milione di euro grattando con una monetina una sostanza argentata da un cartoncino.

Monday, July 23, 2012

Cattive compagnie

Difficile concentrarsi in autobus quanto basta per leggere "Evolutionary Epistemology." Non sono i sobbalzi, le accelerazioni o il rumore monotono, sono le persone che parlano a volumi da megafono da soli, o meglio al telefono. In particolare, stasera, una ragazza che raccontava di non so cosa, quelle frasi del tipo: "i miei mi hanno detto che mi regalano 'sta cosa ma io gli ho detto 'siete sicuri? e loro non hanno detto più niente hahahaha" il tutto condito con molta enfasi, che rendeva la cosa, se possibile, ancora più snervante. La telefonata si è dilungata per un tempo apparentemente illimitato. Le mie telefonate durano di solito meno di 15 secondi: arrivo, ritardo, puoi fare questo, ci vediamo tra poco. Quando aspetti che qualcuno finisca di telefonare per fare qualcosa (nel mio caso leggere in santa pace) il tempo si dilata e ogni ripetizione di una parola, di una frase, di un concetto, diventa il movente per il danneggiamento aggravato di proprietà privata. Un altro tizio, salito una fermata dopo, aveva una cadenza particolarmente insopportabile. Stava spiegando a qualcuno che qualcun altro aveva passato un brutto periodo e che lo avrebbe visto da lì a poco. Fortunatamente lo aveva sentito meglio che qualche giorno prima. La cosa fastidiosa era che iniziava ogni frase a volume altissimo e finiva volume basso, costringendomi a vere e proprie acrobazie di attenzione. Qui la ripetitività era geriatrica, mentre il tizio e, probabilmente, quello con cui conversava erano sì e no ventenni, non so se per mancanza di campo o per semplice rincoglionimento dei soggetti interessati. Per altro non credo di violare nessuna privacy in questa cronaca, visto che i suddetti della loro privacy pare interessasse molto poco. Successivamente, attraversando la stazione ferroviaria, tre ragazze impegnate in altrettante conversazioni telefoniche una accanto all'altra su una panchina, un ragazzo che si ascoltava la musica sfondandosi le orecchie con musica pop, altri che evidentemente giocavano a qualche videogioco.
Non è certo la prima volta che noto questo, e non sono né il primo né l'ultimo, ma oggi, dato un periodo di maggiormente acuita misantropia, mi sono ricordato di annotare come tutto questo grande sfoggio di appendici a batteria non significhi che una cosa sola: le persone detestano stare in propria compagnia. Proprio non possono stare sole nemmeno per pochi minuti, devono per forza occupare il loro cervello con qualcosa di totalmente e banalmente inutile. Il fatto che si lobotomizzino potrebbe anche essere irrilevante se non fosse per due aspetti particolarmente seri. Il primo. questi individui fanno parte della società in cui vivo anch'io, quindi polis futtutis, contribuiscono a forgiare l'ambiente in cui vivo anche dal punto di vista formale.  Il secondo, più immediato, mi rompono le palle quando voglio stare un po' con me stesso.

Friday, May 11, 2012

Elogio del Secchione

Una maggioranza o anche semplicemente un gran numero di persone possono non avere ragione. Questo controintuitivo concetto (che è controintuitivo se si applica la teoria frequentista delle probabilità) è ben noto e gli esempi si sprecano. Il problema è che, qualora esistesse una prova, o una forte evidenza, che la maggioranza si sbaglia, questa prova sarebbe conosciuta solo da una minoranza della minoranza. Di solito, chi conosce la prova identifica chi non la conosce con uno spregiativo massa. La massa, dal canto suo, spesso non solo ignora chi conosce la prova, ma anzi, non né pensa particolarmente bene. Conoscendosi maggioranza, di solito, vede le minoranze come qualche forma di pericolo, o di non uniformità.

Questo fenomeno è molto simile a quello sperimentato da ogni secchione almeno una volta nella vita: isolamento, derisione, bullismo, incomprensione. Si può spesso identificare senza grossi problemi l'origine dei comportamenti, non a caso siamo secchioni. Si tratta perlopiù di essere considerati diversi dal resto del branco, quindi, per l'assunto di uniformità della natura di Hume, anche sbagliati. In parole povere "se non sei come me hai qualcosa che non va, se poi mettiamo anche che ti credi superiore giusto perché perché sai ragionare, allora mi stai proprio sul cazzo!"

Il membro della massa che si trovi a leggere qui (e che è riuscito a passare indenne attraverso la teoria frequentista delle probabilità e la filosofia di Hume), potrebbe ben dire che Steve Jobs, di cui ha saputo della morte, non era affatto bravo a scuola, e anzi, era un frikettone allucinato. Si dà il caso che si possono fare due considerazioni in questo caso. La prima è che il secchione ha di solito una certa perseveranza e cocciutaggine nel capire e nel produrre, cosa che fa di Jobs un secchione. La seconda è che, sebbene lui c'abbia messo molta energia, i prodotti per cui è famoso non esisterebbero se non esistessero mandrie introverse di ingegneri, ricercatori, designer, che hanno speso molti week-end non invitati a molte feste. Gente che leggeva libri di fantascienza, forse, o programmava un computer giusto per il divertimento di farlo. Di fatto è assodato che la necessaria creatività per produrre innovazione deriva dai secchioni, specialmente quelli che sentono che devono fare ciò che stanno facendo.

Come dice Susan Cain, nella sua apologia degli introversi, se mettete delle persone in una stanza queste tenderanno a uniformarsi su delle idee, a scimmiottare, letteralmente, le persone più carismatiche, ovvero quelle che hanno un migliore eloquio, ma non c'è nessuna correlazione tra eloquio e intelligenza creativa. La creatività è molto più spesso attiva nella solitudine che tra la folla, più spesso dalla lettura che dall'aperitivo in piazza.

Quando la vostra suoneria del cellulare partirà a tutto volume con l'ultima hit dance ascoltata nella vostra trasmissione televisiva preferita, ricordate che potete ascoltarla, voi e tutti quelli che vi circondano, solo grazie al fatto che esistono i secchioni e, speriamo, esisteranno anche in futuro. E se mi invitate a bere l'aperitivo, magari qualche volta ci vengo pure io.

Tuesday, February 28, 2012

Al traino

Ero sulla nave che stava andando alla deriva ma non ci avevano detto niente, tutto procedeva come se niente fosse, il bar, la discoteca, la palestra. A posteriori potrei dire che si sarebbe potuto notare un maggiore nervosismo da parte dell'equipaggio, ma sarebbe falso. Quando sono arrivate le imbarcazioni per trainarci allora ci hanno informato che era da 10 ore che vagavamo senza controllo in balia dei venti e delle correnti e che c'era stato un incendio, domato in 5 ore con due feriti lievi.

Un folto gruppo fra noi, e io fra questi, quasi tutti ingegneri e avvocati, ha cominciato a protestare per quella inaccettabile mancanza nel non averci informati di cosa stava accadendo. "In un mondo civile," argomentavamo, "noi passeggeri, viaggiatori, cittadini, clienti, eccetera, dovremmo essere consapevoli di ciò che accade poter esercitare il nostro diritto alla scelta." La risposta unanime dell'equipaggio era del tipo "se vi avessimo detto cosa stava succedendo si sarebbe diffusa agitazione e panico in voi 4000 passeggeri, e la cosa, oltre a non servire, avrebbe causato problemi molto peggiori di quelli in cui eravamo." Reagivamo furenti a questa attitudine a trattarci come impicci, come bambini, o come portafogli gonfi con camice hawaiane.

Un uomo sugli ottant'anni, con la faccia allegra, vestito con i tipici calzoncini la cui comodità superava di gran lunga la sconvenienza estetica, si staccò dal bancone del bar per venire proprio da me a dirmi: "io sinceramente ho preferito divertirmi come facevo prima, e ora continuo a farlo fino a che il bar non chiude. Lei non è arrabbiato perché le hanno tolto qualche diritto astratto, o la possibilità di intervento sulla sua vita, lei è arrabbiato perché le hanno tolto una possibilità di avventura, che certo in questa nave non le sarebbe dovuta capitare. Ma senta me, adesso che ci trainano in qualche porto, si beva qualcosa e mangi, non pensi alla linea, e si rilassi."

Sono così entrato nel gruppo di quelli che rimanevano in silenzio ad aspettare lo svolgersi degli eventi. Oggi sono qui, pronto a riprendere il lavoro dopo la vacanza, finalmente rilassato.

Thursday, February 23, 2012

Chi siamo?

Presa dal Corriere del Ticino del 22 Feb. 2012
Questo post parte da una profonda irritazione che mi ha dato un articolo sul Corriere del Ticino del 22 Febbraio 2012. In genere tendo a non scrivere per sfogo, ma stavolta va così.

Come potete leggere nel sottotitolo dell'articolo, Andy Warhol è definito un pubblicitario. Questo è come definire oggi Einstein un impiegato dell'ufficio brevetti di Berna, o come dire che Tom Waits è un portinaio, Paolo Conte è un avvocato, che Michael Bublé è un pescatore... Beh, questa è l'eccezione...

Che cosa siamo? Nella società industriale (e post) è molto consueto presentarsi con frasi del tipo: "sono un assicuratore," "sono una professoressa," "sono un imprenditore", etc. In una realtà fantozziana la ricerca della propria identità termina con l'acquisizione del posto fisso. Quando il posto fisso è perso l'identità è persa, o rimane appiccicata a un passato imperfetto. "Ero un camionista." Curioso il fatto che il passato imperfetto si chiami così per il fatto che ci si dovrebbe riferire, con questo tempo verbale, a eventi e situazioni che non si sono concluse. Bello no? I bambini usano l'imperfetto per denotare una situazione di gioco mentre il gioco è in corso ("facciamo finta che ero ..."), negli adulti che perdono il lavoro è un appliglio le cui resistenza e necessità sono tutte da verificare.

Quindi per il giornalista che ha scritto l'articolo, Warhol è qualcosa solo fintanto che ha un lavoro, mentre quando fa semplicemente l'artista no. Lo dicono sempre i genitori: "smettila di fare castelli in aria e trovati un lavoro". (Più semplicemente è probabile che gli facesse schifo Warhol e che lo abbiano obbligato a scriverne).

Io propenderei a definire Warhol artista semplicemente perché è sicuramente più vicino a quello che lui sentiva di essere. Certo non si sarebbe definito seriamente pubblicitario. La questione dell'identità è comunque seria, e non si dovrebbe chiedere a qualcuno "chi sei?". Cosa si potrebbe risponcere? Personalmente non saprei cosa dire e, dopo aver balbettato qualcosa, l'ansia mi farebbe estrarre una mitraglietta e uccidere gli astanti in un delilrio di vaneggiamenti.

Ammetto che queste considerazioni sono dettate dal fatto che non me la sono mai sentita di identificarmi con quello che facevo (e faccio), il che può essere visto sia come un baluardo di integrità che come la predestinazione all'insuccesso. Non ho mai raggiunto l'autoconsapevolezza fantozziana, che per quanto mi riguarda potrebbe anche essere il più alto traguardo della vita, come dire che la rivoluzione industriale ci ha portato tutti più vicini all'illuminazione buddista. Ritengo però più probabile che non sia così.